Presidente, i numeri dell’Associazione non sembrano incoraggianti: il calo dei soci è stato del 4,6% del 2020 rispetto al 2019 e addirittura del 22,6% nel 2021 rispetto al 2020. Lei parla di «una stagione pervasa da criticità e fatiche in parte determinate e in parte “svelate” dalla pandemia del Covid-19». Sono intuibili le criticità “determinate” dalla pandemia. Quali sono quelle “svelate”?
Ci siamo resi conto, a motivo della situazione in cui ha costretto la pandemia, che la vita associativa era entrata in crisi. Parlo del primato delle relazioni, perché il valore del gruppo che non è adunanza, che sa di convocazione, è la dimensione orizzontale della cura delle relazioni. Il nostro impegno è stato allora rifocalizzare la vita associativa sulle relazioni e questo ci ha fatto riscoprire anche la gratuità del servizio, che negli ultimi anni ha risentito del fatto che c’è più calcolo nell’impegno delle persone, mentre la vita associativa dovrebbe far crescere proprio nella gratuità, perché il bello della vita associativa non è il funzionale, ma la cura delle persone. La vita associativa non deve aggiungersi, deve essere qualcosa che fa splendere la vita delle persone.
C’è stato un tempo in cui l’Ac “bucava” le pagine dei giornali. Erano i tempi di Vittorio Bachelet e poi di Alberto Monticone. L’Ac era presente nel dibattito pubblico con un punto di vista precipuo che suscitava spesso interessanti confronti. Poi sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e la presidenza alla Conferenza episcopale del card. Camillo Ruini i fermenti dell’Ac sono stati ritenuti più un problema che una risorsa e la Chiesa istituzionale ha puntato sui movimenti, liberistici e omogenei. Oggi pensate che il modello associativo, più formativo e dialogico, possa ancora essere vincente dentro il laicato cattolico?
Spero e penso di sì. Anche se il modello del liderismo non era solo ecclesiale, ma sociale. E qualche coda c’è ancora. Penso però che nel tempo attuale si avverta la necessità della ricucitura dei legami sociali. Allora il compito dell’Associazione è anche questo, la tessitura del capitale sociale, non solo nella vita della Chiesa ma nella società in genere. Un orientamento verso cui tra l’altro sospinge papa Francesco quando parla di Chiesa in uscita. Perché la dimensione del popolo che non è massa indistinta da guidare, ma società civile organizzata – è la mistica popolare di cui parla il papa – che partecipa, che dialoga con le istituzioni. Questo dunque è il tempo delle associazioni, di rigenerazione dal basso della democrazia, dell’insistenza sul ricambio è generativo, del passare il testimone come peraltro l’Ac fa cambiando le cariche ogni tre anni. L’altro elemento di questo tempo è quello che noi chiamiamo la scelta delle alleanze, cioè non da soli, ma in colloquio con altri come responsabilità di far crescere un linguaggio partecipativo, democratico, lavorando insieme.
La larga maggioranza dei soci dell’Associazione è femminile: le donne sono il 63%, dato comprensibile se si pensa che nelle parrocchie la presenza femminile è sempre più alta di quella maschile. Come mai l’Ac non è intervenuto sull’opportunità di un servizio almeno diaconale delle donne (lasciando da parte il tema ancora più scottante delle donne prete)? E in questo 63% nessuna mai “rivendica” un ministero ordinato?
La mia esperienza associativa è di grande protagonismo femminile, anche come incarichi dirigenziali e alla presidenza dell’associazione. È tempo di avere un’altra presidente donna, una seconda presidente donna, la prima fu Paola Bignardi (1998- 2005). Sul tema più teologico dell’ordinazione diaconale e/o sacerdotale femminile, noi ci siamo confrontati con molte teologhe ma non abbiamo mai tematizzato la questione. Penso di poter dire che l’associazione, sapendo anche la rilevanza delle donne nell’Ac, avrebbe piacere a discuterne in maniera libera.
E, dunque, un dibattito su questo tema, qualora venisse presentato da parte di qualcuna o qualcuno all’interno dell’Associazione, non verrebbe soffocato… ricordiamo che Giovanni Paolo II con la sua Ordinatio sacerdotalis mise un lucchetto a discussioni su quest’argomento.
No, nessun “lucchetto”. E penso che il cammino sinodale lo porrà e là bisognerà vedere di affrontarlo con libertà e anche con grande creatività. Ne parlava anche qualche vescovo in assemblea (quella del 23-27 maggio scorso, ndr), quindi non è una questione taciuta. O non come prima. Prima c’era più reticenza. Ora si può discutere di più. Le teologhe donne stanno dando un grande contributo, ci hanno aiutato moltissimo anche negli approfondimenti sul cammino sinodale.
Per il Sinodo del 2023 avete consegnato una riflessione come associazione o avete dato il vostro contributo al dibattito nelle varie diocesi? I “punti forti”?
Ci siamo attivati per animare la fase diocesana, ci sembrava più importante questa fase di ascolto e vorrei dire – sommessamente, perché non ho una statistica precisa – che una buona parte dei referenti diocesani dei sinodi sono persone dell’Ac, lo hanno detto anche dei vescovi. È una cosa che dimostra il coinvolgimento reale. Ora abbiamo deciso di dedicare il prossimo Consiglio nazionale ad ascoltare la verifica emersa dall’assemblea episcopale con l’idea di dare un contributo di riflessione e di animazione. Non abbiamo ancora messo a tema l’idea di fare un documento nostro. Magari il Consiglio nazionale deciderà che è maturo il tempo di elaborare un contributo.
Ci sono molte diocesi nel mondo che hanno concluso il lavoro sinodale di loro spettanza. Voi che avete partecipato alla prima fase nelle diocesi, avete un po’ il polso della situazione dei loro contributi, a partire dalla diocesi di Roma?
Il cardinale vicario Angelo De Donatis ci ha detto, in una riunione su altro tema, che stavano lavorando tantissimo. Una situazione che ci risulta in essere anche in altre diocesi. Forse si è partiti un po’ tardi, qualcuno ha bucato le scadenze, ma si sta andando avanti. A parte questo cammino finalizzato al Sinodo 2023, c’è tutto il cammino della Chiesa italiana da far avanzare: bisognerà verificare se le diocesi cominciano ad avere uno stile sinodale, a capire che il sinodo non è una cosa da fare, ma una conversione. È importante avviare gruppi di ascolto, di coinvolgimento, andando oltre lo spazio tradizionale della parrocchia.
Alcuni mesi fa Adista diede notizia di due gruppi di Ac messinesi, Tusa e Castel di Lucio, indotti dai vertici regionali a ritirare il loro sostegno al ddl Zan sull’omotransfobia. Qual è la posizione dell’associazione nazionale sulle persone LGBT?
Ho avuto la possibilità di incontrare i ragazzi di uno di questi due gruppi della diocesi di Patti, dove ero invitato. E mi hanno raccontato. Sentivo anche il bisogno di portare il sostegno dell’associazione, anche perché questo voleva fare l’Ac diocesana, portare una “cura”. Il problema è l’accoglienza delle persone, e noi non dobbiamo e non vogliamo essere un’associazione esclusiva. Chi fa una scelta di fede, chi sente di volere partecipare alla vita della comunità deve trovare nell’associazione una compagna di strada. C’è poi la questione del Ddl Zan che sta dividendo il Paese. Non è solo la questione della condanna dell’omotransfobia, dell’aggravamento delle norme del Codice penale. Su questo c’è una grande condivisione del mondo cattolico. Il passaggio su cui dobbiamo continuare a confrontarci, lo dico problematicamente, è il passaggio in cui la legge lega il tema della condanna alla promozione nelle scuole, perché da un lato dobbiamo educare i nostri ragazzi all’accoglienza e alla non discriminazione, dall’altra c’è la promozione di uno stile di vita. Ma siamo in ricerca, incontriamo questo tema attraverso l’esperienza delle persone. Non possiamo dare niente per scontato. Abbiamo momenti di studio con altre associazioni, per esempio con l’Agesci. Ma il problema diventa più complesso quando parliamo di normativa, perché dobbiamo cercare di tenere insieme la libera espressione della persona e la tenuta degli altri legami sociali, non è facile, ma è lì che dobbiamo metterci in ascolto e cercare di dare un contributo, come associazione, che è educativa e vuole promuovere la maturazione e la crescita delle persone. Poi naturalmente c’è il discorso politico, al quale, in un Paese come il nostro che ha tante istanze culturali, bisogna provare a dare sintesi alte, non divisive. Questo è uno dei maggiori temi a rischio strumentalizzazione, ma l’“altro” è terra sacra, bisogna avere la capacità di trovare modi e temi di confronto.
Insieme a 40 Associazioni cattoliche, l’Ac ha sottoscritto un documento in cui si chiede al Governo italiano di aderire al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari. Non pensate che la scelta del governo Draghi (come di altri governi occidentali) di inviare armi, per di più secretandone il tipo e la quantità, possa aumentare la crisi internazionale in atto, paventando lo scenario atomico?
Il tema della pace è uno di quei temi su cui bisogna essere evangelici. Il no alla guerra deve essere deciso. Certo, mi rendo conto che il governo italiano è in un sistema di alleanze cui bisogna essere leali. Mi ha confortato un po’ che Draghi, oltre ad avere adottato quella scelta, personalmente ha preso anche altre iniziative con l’Europa. Nell’orizzonte c’è la ricerca della pace, poi fanno la differenza tempi e modi delle scelte. Ma bisogna ragionare sul bando delle armi nucleari perché l’escalation, la preoccupazione per l’escalation c’è, e se c’è è perché continuiamo ad avere le armi nucleari, e allora a monte bisogna continuare a insistere su campagne come quella che abbiamo sostenuto, perché il problema è che continuiamo ad armarci. C’è un’altra iniziativa che voglio ricordare: quella dei corpi civili di pace. Bisogna dare più spazio alla società civile, al dialogo tra i popoli. Anche in un momento come questo, in cui l’intervento è delle forze armate, ci rendiamo conto che dare più spazio alla società civile in questo tipo di intervento possa essere una linea interessante. Voglio ricordare che noi di Ac abbiamo preso l’iniziativa dell’“abbraccio per la pace” fra persone ucraine e russe. Poi il papa ci ha “scavalcato” e l’ha fatto in diretta mondiale alla “via crucis”.
L’Associazione condivide quello che finora è stato il modus operandi di insabbiamento e silenzio della Chiesa sugli abusi di preti verso i minori?
Su questo tema non c’è un pensiero complessivo dell’Associazione, ma non perché siamo insensibili. Penso che il cammino della Chiesa italiana, seppure travagliato, con le sue inerzie, con le sue fatiche, vada nella direzione che il papa, contro gli abusi, ha descritto in maniera lucidissima. Il cammino è inesorabile. Noi siamo per la maggiore trasparenza possibile in tutti i processi, e riteniamo che il lavoro educativo che svolgiamo sia importante anche dal punto di vista culturale. Trattare con severità questi casi e con la massima trasparenza aiuterà anche la cultura a capire e non generalizzare, perché altrimenti la chiusura autorizza le persone a generalizzare. Sul piano educativo, perché non abbiano a ripetersi abusi sessuali e/o di coscienza, l’Ac ha inoltre partecipato al cosiddetto progetto Safe (“Supporting Action to Foster Embedding of child safe guarding policies in Italian faith led organizations and sports club for children), un programma biennale di ricerca dell’Unione Europea, cui hanno partecipato 4 partners: l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, il Centro Sportivo Italiano, il C.I.R.Vi.S. – SDE (Università di Bologna), la Presidenza nazionale Azione Cattolica italiana. Il successo dell’iniziativa è data innanzitutto da un numero: sono state formate 1.200 persone, tra singoli associati di Comunità Papa Giovanni XXIII, Azione Cattolica Italiana, Centro sportivo italiano, e rispettivi leader locali e nazionali. (e.c.)
*La lunga intervista al presidente di Ac, Giuseppe Notarstefano, apparsa su Adista-Notizie n. 22 (blu), è introdotta da un lungo cappello iniziale in cui si parla del Bilancio di sostenibilità. L’intervista completa è possibile leggerla nel pdf allegato.
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