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Nelle sottrazioni di questo tempo non sopravvivere ma vivere davvero - Azione Cattolica Italiana Arcidiocesi di Palermo

Nelle sottrazioni di questo tempo non sopravvivere ma vivere davvero

È il mese di giugno e in un piccolo paese di montagna, noto per la piovosità che caratterizza la vallata, le fontane pubbliche e private sono chiuse. Le sorgenti sono senz’acqua, occorrerà portarla da valle, prevedono. Ma è complicato, mancano le strutture per farlo, predisporle costerà molto. Per il momento occorre ridurre al minimo il consumo delle riserve, ed è una situazione che nessuno ricorda di aver affrontato nei decenni scorsi. Nessuno ricorda neppure – sempre guardando indietro di una quarantina di anni – bollette del gas così alte e prezzi del carburante in aumento vertiginoso nell’arco di pochi giorni. Allo stesso modo per tutti noi rappresenta una sicura novità il fatto che un virus possa minacciare la vita di intere popolazioni simultaneamente e mettere in ginocchio un sistema di produzione e di benessere (puoi scaricarti il pdf dell’articolo – Nelle sottrazioni di questo tempo non sopravvivere ma vivere davvero – cliccando a questo link di Segnoweb e saperne di più sull’intero numero di Segno nel mondo cliccando questo link).

Il cambiamento climatico, la guerra in Ucraina e la pandemia stanno segnando il nostro vivere e sono delle autentiche novità per l’attuale società europea. Non lo sono tuttavia per molte altre regioni del mondo, in cui la siccità e gli effetti dell’innalzamento delle temperature stanno cambiando le condizioni dell’esistenza già da molto tempo; non lo sono per luoghi dove il conflitto armato e la distruzione sono lo scenario in cui sono nate e cresciute già diverse generazioni; non lo sono per zone in cui l’emergenza sanitaria collettiva è l’amara normalità da decenni.

Uno sguardo sulla vastità del mondo ci segnala che la vera novità non sono le problematiche in se stesse – che esistono da tempo e, per certi versi purtroppo da sempre – ma la presa di coscienza del fatto che possano riguardarci da vicino e compromettere anche il nostro tenore di vita e i nostri consumi. Uno sguardo ancora più onesto porterebbe a riconoscere che il benessere di cui godiamo non è affatto un risultato “autarchico”, frutto dell’impegno e della cura dei nostri territori, del rispetto della nostra gente, del nostro lavoro: è lo sfruttamento di altri luoghi del mondo, delle loro materie prime, della manodopera di altre popolazioni a concorrere, meno visibilmente, al nostro star meglio e all’inasprirsi di quelle stesse problematiche che oggi sentiamo così vicine.

Questa presa di coscienza della limitatezza delle risorse e dei lati oscuri dell’interdipendenza globale che interpellano la nostra responsabilità è amara ma decisamente importante, e forse proprio il fatto che finalmente riusciamo a percepirne l’impatto sull’ordinarietà del nostro vivere ci può aiutare a non rimuoverla, ma piuttosto ad esplorarla meglio.

Il tempo giusto per riafferrare le relazioni con la pratica dell’ospitalità, anche a tavola

Meno risorse non vuol dire meno relazioni

Un aspetto – tra gli altri – che possiamo cercare di approfondire è il rapporto tra scarsità di risorse e relazioni. Sappiamo che nei frangenti in cui la vita si fa più difficile e si percepisce un impoverimento rispetto al tenore di vita precedente, una delle opzioni è appunto quella del preoccuparsi di sé (o di un “noi”), di limitare la condivisione, finendo per attivare relazioni più o meno consapevoli di sfruttamento.

È possibile reagire diversamente?

La Scrittura ebraica riporta una vicenda interessante per affrontare questo interrogativo: nel primo Libro dei Re si ricorda l’incontro tra Elia e una vedova di Sarepta di Sidone, che avviene proprio in un tempo di siccità e di carestia. La donna ha a disposizione le ultime scorte per sé e per il figlio ed è rassegnata a morire, tuttavia mette a disposizione del profeta quel poco che ha. La sorpresa è che, anziché esaurirsi definitivamente, l’olio e la farina non finiscono e, annota il racconto, «lei, lui e la casa di lei mangiarono per diversi giorni» (1 Re 17,7-16). Il tema del cibo che non si esaurisce, ma che a partire dalla condivisione crea comunità, cioè relazioni buone e non di sfruttamento, diventerà un elemento cardine nei Vangeli, dove troviamo nuovamente che il necessario per sfamare molti arriva da chi si direbbe non avere che le proprie ultime risorse: se nell’episodio di Elia c’è una vedova, nel vangelo di Giovanni ecco un ragazzo, con la sua scorta per la giornata (Gv 6,9).

Questi racconti confermano anzitutto quanto sia controintuitiva la decisione di condividere delle risorse che scarseggiano con degli estranei: la vedova, che si aspetta la morte imminente, ha in mente di consumare quel che resta solo con il figlio, e Elia deve insistere per essere incluso a quella che la donna suppone sia l’ultima mensa; la stessa perplessità gli evangelisti la attribuiscono ai discepoli, decisamente più propensi a lasciare che ciascuno se la veda da solo: «Congedali – suggeriscono a Gesù nel racconto di Marco – in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare» (Mc 6,36). E Gesù spende la sua autorità di maestro per portarli al di là della loro esperienza. Gli esiti enfatici, il mangiarne tutti quelli della casa per molti giorni, come la numerosità della folla sfamata, rinforzano il senso della sorpresa: il “miracolo” evidenzia qualcosa che decisamente non ci si aspetta, e in questo senso ci rivela quanto sia al di là delle nostre attese intuitive l’idea che la condivisione del poco, in condizioni di ristrettezza, possa essere rigenerativa e nutriente per le relazioni.

Nelle sottrazioni di questo tempo non sopravvivere ma vivere davvero: lasciamoci sorprendere dai frutti sorprendenti della condivisione

La sapienza antica sembra metterci in guardia: dinanzi alla sfida del condividere i nostri conti preventivi non torneranno mai, che si tratti della dimensione familiare o di quella della cooperazione internazionale. Eppure, se ci sporgiamo oltre quel che l’intuito suggerisce, gli sviluppi ci sorprenderanno. Il passo però non è tanto questione di determinazione quanto di fiducia: è in base al credito dato a Gesù che i discepoli fanno accomodare la moltitudine, così come è l’accoglienza a tavola dell’uomo di Dio che prelude all’allargamento della mensa a tutti quelli della casa della vedova.

In un certo senso possiamo osservare che la sfida globale della condivisione nella scarsità di risorse ci fa prendere contatto anzitutto con una nostra resistenza potente, che ha i tratti di un dato antropologico più che caratteriale dei singoli. Questa resistenza può però essere un “luogo teologico”, un vissuto che – se riconosciuto – può parlarci di noi stessi e di Dio, dell’umano e del divino, e rivelarci occasioni semplici per rinnovare la fiducia interiore tanto quanto la trama delle relazioni sociali.

La pratica di un’ospitalità anche essenziale nella condivisione della tavola e di quel che c’è in dispensa, sollevata dalla preoccupazione della programmazione e della completezza, può magari trovare un po’ più spazio e tempo nel periodo estivo: la conversione del nostro sguardo sui problemi globali e la possibilità di “riafferrare le relazioni” nella loro migliore consistenza sono forse più intrecciate di quel che può sembrare a prima vista.

*Giovanni Grandi è professore associato di Filosofia Morale presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Trieste. È membro della Direzione della rivista “Dialoghi“, trimestrale dell’Azione cattolica italiana. È tra i fondatori dell’iniziativa “Parole O_Stili” per la promozione di stili di comunicazione non violenti online. Sulla pagina Facebook e sul canale YouTube è possibile seguire brevi spunti riflessivi a partire dalle materie di studio accademico. Dal 1996 è in organico del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico nella Delegazione del Friuli-Venezia Giulia.
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