L’anniversario degli ottant’anni trascorsi dalla redazione di quello che viene definito uno dei documenti fondativi da cui – come ha ricordato il presidente Sergio Mattarella – «vengono orientamenti basilari, che riscontriamo oggi nel nostro ordinamento», è per tutti noi una preziosa occasione non solo per fare memoria e ricordare le ragioni e gli impatti di quell’esperienza, ma per ritrovare quella tensione generosa e quella visione coraggiosa.
Mentre l’Europa bruciava all’apice della Seconda guerra mondiale, in Italia la dittatura fascista si accingeva a vivere il suo tragico epilogo, Mussolini veniva destituito e iniziava così quel processo drammatico e complesso che avrebbe portato alla fine della guerra e all’approdo del Paese alla scelta democratica e repubblicana. Proprio in quel frangente, un gruppo di intellettuali, professionisti e studiosi si ritrova a riflettere sul nuovo ordine sociale che il Paese dovrà darsi, con uno sguardo rivolto al futuro proprio come aveva richiesto papa Pio XII incoraggiando l’avvio di tale iniziativa. Era un gruppo di giovani accomunati dall’esperienza di militanza nei movimenti dell’Azione Cattolica e da un approccio rigoroso, non emotivo, e concreto, non dunque astratto da ciò che stava accadendo al Paese, come ricordò l’assistente dei Laureati e vescovo di Bergamo, Adriano Bernareggi nel suo intervento introduttivo. La stesura del documento fu certamente un lavoro intellettuale ricco di scambi, riflessioni ed approfondimenti che si intrecciarono con il rapido evolversi di eventi che di lì a poco avrebbero visto proprio quegli intellettuali partecipare in prima persona e mettersi in gioco nelle nascenti istituzioni repubblicane e, soprattutto, nella vicenda della Costituente.
Fu un discernimento spirituale, personale e comunitario, che condusse tutti loro a prendere posizione di fronte ad una fase di trasformazione che chiedeva intuizione e chiarezza di visione, coraggio e una vivace cordialità nel promuovere lavoro ed impegno comuni.
Certo, nel frattempo è sicuramente cambiato e ricambiato il mondo. Abbiamo imparato (forse) ad abitare “nuovi mondi”, pensiamo alle nuove sfide della trasformazione digitale e del cambiamento climatico. È sicuramente cambiato il rapporto con la politica: mentre gli “amici di Camaldoli” si confrontarono con gli esiti nefasti del totalitarismo, oggi dobbiamo misurarci con un non meno insidioso pericolo dato dalla delegittimazione della politica democratica, ma anche con una strisciante rinuncia a quella che dovrebbe essere la sua finalità fondamentale, vale a dire un servizio – istituzionale e democraticamente partecipato – all’edificazione e alla promozione del bene comune.
Ricordare oggi lo spirito di Camaldoli, vuol dire in primo luogo, riappropriarsi di questo stile di elaborazione competente e discussione generosa, che sappia affrontare la complessità delle trasformazioni in atto senza cedere alla tentazione tecnocratica di approcci iper-specialistici e soprattutto di meccanicismi sociali, ma sappia piuttosto raccogliere la sfida di integrare i saperi e gli apporti dei singoli in una discussione aperta e franca che deve trovare il suo spazio ideale nello spazio pubblico e in una dimensione specificatamente culturale.
Per questo occorre recuperare il valore fondativo di regole comuni, condivise e garantite, che costituiscano il raccordo, profondo e radicato, della società, per garantire insieme l’autonomia della persona e la convivenza civile. Riscoprire la democrazia come strumento di convivenza civile e pacifica – come ha ricordato il cardinale Matteo Zuppi venerdì nella sua prolusione. Molto opportuno e necessario appare in tal senso il tema e il metodo scelto per la prossima Settimana Sociale dei cattolici in Italia che intende proprio avviare un processo di rigenerazione di forme, luoghi, esperienze in cui la democrazia rivela non solo un metodo prezioso ma uno strumento di costruzione solidale e inclusiva della vita sociale. Ci occorrono oggi regole per decidere insieme, riconoscendo il valore delle tensioni dialettiche e dei conflitti che occorre ricomporre rinunciando a soluzioni individuali, unilaterali e violente. In tal senso l’esperienza sinodale, penso in particolare all’esperienza europea, potrà offrire un contributo importante se saprà pensarsi in modo non autoreferenziale ed astratto.
Ritornare a Camaldoli, infatti, significa far tesoro di quella esperienza di laicità adulta e matura, che proprio in fedeltà alla sua ispirazione e visione religiosa e accettando la parzialità della dimensione politica in ordine alla ricerca del maggior bene possibile, non rinuncia mai ad espandere tale ricerca all’interno di una pratica sincera e concreta della fraternità con tutti, con la consapevolezza di dare delle risposte che sono provvisorie, ma finalizzate, questo sì, alla realizzazione dell’uomo nella società. Si tratta insomma di ragionare e lavorare insieme intorno a «un ordine sociale non solo astrattamente giusto ed umano, ma anche concretamente e storicamente possibile» (dalla Presentazione del Codice di Camaldoli).
Ritrovare lo spirito di Camaldoli potrebbe voler significare oggi ritrovare la politica come stile di abitare oggi la complessità, come uno spazio trasformato da un nuovo agire sociale più fraterno e più prossimo, che guarda in faccia ciascuna persona riconoscendo il fratello ed è disposto a coinvolgersi insieme nei processi, individuando quella dimensione profonda ne sa rivelare la promessa di futuro che anche oggi è la vera grande notizia di speranza.
Articolo pubblicato su Avvenire del 23 luglio 2023
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