Questa volta no. In Medio Oriente il diritto internazionale, le procedure di concertazione delle Nazioni Unite, la geopolitica non sembrano offrire motivi sufficienti all’etica, perché essa possa sospendere il suo appello ricorrente in favore della pace, in nome di un improbabile principio del male minore.Quanto accade, a partire dal massacro di giovani israeliani del 7 ottobre 2023, appare oggi oggettivamente inaccettabile e ripugnante. Non soltanto perché gli scenari sono più foschi e imprevedibili; sarebbe odioso essere a favore delle guerre solo quando sono facili e il prezzo da pagare conveniente. No. Questa volta è diverso. Sono in molti ad averlo capito. L’ha capito la coscienza diffusa della gente, portando in piazza i sentimenti ragionati di un sano istinto morale, che la politica deve certamente educare, ma solo dopo aver ascoltato e preso sul serio.L’hanno capito fragili organismi internazionali. L’ha capito il Papa, che ha accompagnato l’appello accorato e intransigente alla pace con iniziative pressanti e inequivocabili.
Un modo diverso di organizzare la convivenza
Come credenti, siamo radicalmente interpellati da questo Papa profetico e coraggioso, che rifugge da ogni forma di equilibrismo evasivo e diplomatico e non teme le accuse di antioccidentalismo.Ricordando severamente alcuni principi inderogabili, Francesco non si sostituisce alla coscienza di ciascuno di noi. Accetta il rischio di compiere il primo passo, ma gli altri passi spettano a tutti gli uomini di buona volontà. Spetta in particolare alla nostra responsabilità di laici cristiani, che debbono chiedere alla politica un modo diverso di organizzare la convivenza, presidiare la giustizia, governare i conflitti, percorrere la via lunga che cerchi di tagliare l’erba sotto i piedi alla cultura del terrorismo.
Molti commentatori politici hanno declassato con sufficienza gli accorati appelli del Papa come patetici atti dovuti, confinandoli in un limbo insignificante rispetto agli spazi in cui la politica deve ruvidamente fare i propri conti e assumersi lo sporco compito di decidere. È l’antica tentazione di emarginare la proposta cristiana in una nicchia simbolica indolore, quasi folcloristica, e magari poi riabilitarla come un’affidabile agenzia assistenziale, sempre utile nelle retrovie dei conflitti.
Oltre le ragioni della fede, la lezione della storia
Ma non ci sono solo le ragioni della fede. C’è la lezione della storia (che la “vecchia” Europa non dovrebbe dimenticare…). Ci sono le codificazioni del diritto (nel nostro caso, una buona Costituzione da vivere…). C’è l’etica. In tutti i casi in cui la politica s’incontra in modo ravvicinato con la vita e la morte l’appello etico assume una intransigenza particolare. Questo appello non sospende la politica, ma non può nemmeno scivolarle addosso come una emulsione estranea. La politica deve prendere sul serio l’etica, cercando e trovando risposte alle sue domande. Risposte praticabili e decenti.
Tra queste risposte c’è di certo l’uso della forza, che si distingue dalla violenza quando è moralmente lecita e formalmente legittima. Nessuno contesta che la lotta al terrorismo debba includere questo esercizio della forza. Ma è difficile invocare ragioni di eccezionalità, che si spingano fino al principio abnorme della guerra preventiva. Ragioni tali da sospendere non solo la legittimazione del diritto internazionale, in vigore proprio per far fronte a questo tipo di crisi, ma addirittura ogni giudizio di liceità morale.
Quando la posta in gioco si fa sempre più alta e il giudizio storico problematico, le ragioni dell’etica diventano inderogabili. In tal senso spetta all’Onu l’uso della forza e la responsabilità di dividere i contendenti, e non solo in Medio Oriente. All’Onu è affidata una responsabilità etico-politica che sappia fare sintesi tra l’ordine dei principi e una valutazione ponderata delle situazioni. Altrimenti è dichiarato dai fatti il suo fallimento.
La via della responsabilità etica e dell’efficacia politica
Tra la rigidezza fondamentalista del pacifismo estremo, che non ha bisogno di guardare in faccia la realtà per riproporre sempre gli stessi no, e il pragmatismo cinico di chi è disposto a discutere su tutto, purché ci siano risultati concreti da incassare, c’è un’altra via (non una terza via, probabilmente la prima). Quella, sofferta e perfettibile, che deve coniugare responsabilità etica ed efficacia politica, senza rifugiarsi in una equidistanza asettica. I volti delle vittime ce lo impediscono.
Continuare ad ingrossare gli arsenali militari, riprendersi bruscamente il potere ceduto a organismi internazionali quando non assecondano i nostri disegni, riattizzare la logica barbara dell’Amico e del Nemico, lasciar circolare dentro la politica il lessico sfrontato dell’annientamento e della vittoria: non sono questi gli unici modi per onorare i morti del 7 ottobre, come quelli dei bombardamenti indiscriminati sui palestinesi di Gaza che sono seguiti, e impedire che il terrorismo arruoli altri disperati, con la lusinga orrenda di farne i nuovi eroi di una apocalittica guerra dei poveri.
In Medio Oriente la politica ritrovi la decenza
La pace e la guerra sono parole troppo alte per essere sfiorate anche dal semplice sospetto di strumentalizzazione. La guerra può essere un pretesto: un pretesto per fare pericolosi esercizi di nuovo ordine mondiale. Ma anche la pace può essere un pretesto per scavalcare la politica e riproporre in forme diverse una medesima logica di demonizzazione del Nemico. Non è necessario, oggi, arrivare così lontano per dire di no alla guerra. Basta molto meno. Basta che la politica ritrovi la decenza.
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