Ci sono luoghi che rimangono impressi per sempre nella nostra memoria. E non per la loro maestosità, la fama, o la bellezza. No! Piuttosto per qualcosa che senti dentro: un dono, un’emozione, un brivido che solo lì hai ricevuto. Io, per il mio lavoro, ho girato il mondo: sono stato nella buca di Ground zero e sul vulcano Pinatubo, sulla spiaggia di Ipanema e nella discarca di Korogocho. Eppure, se mi chiedete qual è il posto dove con più forza il ricordo mi spinge, rispondo: Cànolo.
Alzi la mano chi ha mai sentito questo nome. È un paesino dell’Aspromonte di settecento abitanti, aggrappato su montagne di roccia sedimentaria che chiamano le Dolomiti del Sud. Nel 1951 una terribile alluvione devastò il vecchio centro storico e il paese si sdoppiò. Sui pianori ventosi dello spartiacque appenninico fu costruito Cànolo Nuova: case tutte uguali distribuite in un reticolato ordinato di strade e una grande piazza con la parrocchiale, spoglia come un albero d’inverno.
Ebbene, era nella canonica sgarrupata di questa chiesa che noi, giovanissimi e giovani di Ac, andavamo a fare i campi-scuola, lasciando la rovente costa jonica per salire fin lassù, tra le pinete, al fresco dei quasi mille metri d’altitudine.
Cànolo, il mio posto del cuore
Quell’angolino montano fu capace di attrarre magicamente generazioni di ragazzi. Nelle camerate spartane e disadorne hanno soggiornato l’ex ministro della Sanità Rosi Bindi o l’ex direttrice del Tg3 Giuseppina Paterniti, giusto per citare un paio di nomi. Venivano dal Centro nazionale di Ac a guidare i nostri incontri, insieme al vescovo diocesano e al suo vicario, che mai mancavano di farci visita, almeno per un saluto, arrampicandosi in auto tra i tornanti della vecchia statale Locri-Gioia Tauro. Alla parete del mio studio ho appeso una bella riproduzione a china della chiesa canolese, che mi regalò Luciana, una tra le tante e i tanti che condivisero le belle e impegnative giornate vissute lì.
Quante storie da raccontare!
Ah, se si potessero riascoltare le ardenti omelie del prete-contadino don Vincenzo Sansalone, che arrivava a piedi all’altopiano dal paese vecchio! Sembrava un profeta dell’Antico Testamento quando metteva in guardia dalla corruzione i politici che nelle domeniche d’estate andavano a godersi l’aria fine. Indimenticabile la solenne e intima profondità con cui quel sacerdote, dalle mani incallite e con le scarpe infangate, al momento della consacrazione presentava ai fedeli il Corpo e il Sangue di Cristo.
La chiesa al centro del villaggio
In fondo all’unica navata disadorna spicca nell’abside il grande crocefisso in legno a dimensione naturale scolpito dallo scultore Giuseppe Correale nel 1972. Gli fu commissionato da don Natale Bianchi, un presbitero dall’indole missionaria e ribelle. Aveva preso a cuore quella collettività strapiantata, costretta a trasferirsi in massa su un pianoro isolato.
La chiesa con il fronte in pietra, le forme slanciate, un bel campanile e l’ampia canonica poteva essere il punto da cui ripartire per ricostruire l’anima di una comunità ferita. Don Bianchi, però, non ebbe pazienza: dopo un po’ di tempo fu trasferito e approdò nelle Comunità di base e nei Cristiani per il socialismo, fino alla contestazione radicale che gli costò la sospensione a divinis. Ma il Gesù in croce di Cànolo rimane testimone di un periodo storico – quello postconciliare – che alimentò speranze e suscitò turbolenze.
Il Gesù in croce di Cànolo
Il suo aspetto è possente: non dà l’idea dell’uomo rassegnato che si presenta inerme e sottomesso davanti al patibolo. È un Cristo ribelle, che lotta fino alla fine contro chi lo condanna ingiustamente e non abbassa lo sguardo davanti agli aguzzini che lo inchiodano al legno.
Dettaglio la descrizione di questo splendido crocefisso perché da quasi quindici anni nessuno può vederlo. Perché nessuno può entrare nella chiesa, dichiarata inagibile. Ora, finalmente i lavori di restauro sono quasi ultimati e si spera che l’edificio torni presto ad essere riaperto al culto. Sembra assurdo che ancora, a cent’anni di distanza, valga la domanda che fu posta a Zanotti Bianco nella vecchia Africo, dove un edificio diruto faceva da tempio e alla gente era perfino negato il diritto di pregare Dio: «Chi simu nimali u stamu accussí?» (che siamo, degli animali, costretti a vivere così?). Senza perdersi in lamenti e critiche Zanotti Bianco si mise all’opera. Vade et repara domum meam. «Qualcuno aprirà un altro orizzonte, lo credo disperatamente», diceva a sé stesso.
Presidio di speranza
Anche negli anni più difficili, quelli oscuri dei sequestri di persona, quando i boschi e le forre aspromontane erano divenuti la prigione di tanti rapiti, la chiesa di Cànolo Nuova rimase un presidio di speranza. Nello spiazzo accanto al complesso parrocchiale, giusto aldilà della strada, fu allestita una sorta di cittadella della Polizia di Stato con decine di prefabbricati. Bisognava sorvegliare il territorio giorno e notte. L’entroterra fu militarizzato, ma i raduni formativi canolesi continuarono.
Una sfida educativa senza precedenti
A ripensarci, fu una sfida educativa senza precedenti, portata avanti dal laicato cattolico, da eroici responsabili di Ac, di cui non posso non fare memoria: i presidenti diocesani Mariuccia Ursino e Franco Bono, i vicepresidenti Anna Ursino e Carmelo Caccamo, l’assistente ecclesiastico don Santo Gullace e quello regionale don Gabriele Bilotti. Molti sono già nel novero dei santi e col privilegio dei profeti possono scrutare l’orizzonte come facevamo noi dal punto in cui si vedono i due mari, Jonio e Tirreno. Cercavamo, inconsapevolmente, di guardare oltre ai panorami grigi che la quotidianità ci poneva davanti, per immaginare un futuro migliore, da costruire con la forza interiore che sentivamo provenire da quella terra.
Papa Francesco dice che bisogna approcciare la realtà partendo dalle periferie. Ebbene, anche quando ci sentiamo già periferia, c’è sempre un margine ulteriore da raggiungere, in un estremo più estremo del nostro. È lì che ci è chiesto di arrivare. Almeno con la nostra memoria. Perché solo da lì possiamo vedere le cose, gli altri, la creazione e la nostra fede nella giusta luce.
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