Alla fine era riapparsa. In fondo a un polveroso ripostiglio. Suo padre morto da tre anni. La casa invecchiata in fretta come se, con l’ultimo respiro del genitore, avesse perso anch’essa anima e voglia di vivere. Era una fruttiera in ceramica appartenuta alla madre di lei e di suo fratello. Ci giocavano, rimbrottati affettuosamente perché non la rovinassero, da piccolini. E ora che, da adulti, pulivano insieme quelle mura, i due fratelli l’avevano ritrovata intatta, a distanza di oltre 40 anni, nel luogo più segreto dove il padre aveva voluto preservarla. «Ne ha avuto estrema cura», pensò lei mentre la lavava, attenta, nel lavello di casa. Ogni oggetto che si era salvato dalla furia di chi aveva abitato lì in assenza del genitore, veniva pulito, rammendato, rimesso al suo posto con la sua storia e i suoi ricordi. E intanto la casa riprendeva vita, luminosità, gioia.
L’anima delle cose
Una cura anche per l’anima, dolorosamente lacerata in quel tempo – relativamente breve eppure infinito – che li aveva separati dalla casa di famiglia. Le piante di nuovo innaffiate, il fico d’india, divelto come estremo sfregio contro la memoria del padre, rimesso al suo posto, ogni cosa custodita e condivisa con gli amici e i parenti più stretti. Felici, riconoscenti, grati di esserci gli uni per gli altri.
Forse si nasce predisposti ad aver cura delle persone, delle cose, di sé stessi. Forse si viene educati dalla sensibilità di chi ci ha cresciuti, dalle persone incontrate a scuola o in parrocchia. Si impara, soprattutto in Azione cattolica, quell’arte di far crescere i più piccoli quando si è ragazzi, i ragazzi quando si è giovani, i giovani quando si è adulti… Un passaggio di generazione in generazione che chiede attenzione e gratuità.
Perché se c’è qualcosa che davvero non è cura è rivendicare le azioni fatte, chiedere un corrispettivo, calcolare costi e benefici, pretendere di essere considerati più bravi degli altri. Al contrario, cura significa anche silenzio, osservare, con rispetto, i tempi degli altri. Scoprirsi attenti a un bambino sconosciuto che corre nel supermercato perché non cada e si faccia male, a un anziano in coda davanti al bancomat perché malintenzionati non lo avvicinino per derubarlo, ai suoni di una lite nel condominio di fronte perché un “normale” diverbio tra coniugi non si trasformi nell’ennesimo caso di cronaca nera…
L’attenzione verso chi non ce la fa
La cura ha a che fare con l’armonia, con il vaso dipinto e il giardino, appunto, “curato”. Con la musica e i libri, e le corsie degli ospedali dove, insieme con la malattia, ci si dovrebbe prendere carico dell’essere umano che c’è dietro la diagnosi. Con le Rsa, sempre più numerose nella nostra Italia che invecchia, perché non diventino i ghetti in cui scaricare il peso di chi non ce la fa e gli animali, che fanno parte della famiglia non solo quando sono utili a farci compagnia. E anche le piante, che hanno bisogno di amore e attenzione… Con le carezze, che non a caso, hanno la stessa radice. E la pazienza, perché, spesso, bisogna fare un passo indietro, rimanere in attesa per far germogliare davvero i talenti che ci sono in ciascuno.
Con l’amore per sé e per il proprio corpo, senza esagerare però, in quell’iper-allenamento che, al contrario, deforma muscoli e fattezze per somigliare a piccoli Hulk e mogli di Hulk. Ha a che fare anche, perché no, con quei piccoli interventi estetici che possono farci sentire meglio, togliere qualche insicurezza, darci un’immagine migliore allo specchio, purché, anche qui, la cura non si trasformi nel suo contrario pretendendo standard di bellezza talmente innaturali da apparire, talvolta, persino un po’ inquietanti.
La cura ha bisogno di empatia
La cura ha bisogno di misura. Di empatia. Di forza. Di speranza. Di fiducia. Di stare alla larga dagli affanni. Come invita a fare anche il Vangelo di Matteo.
È Gesù che parla ricordando la cura di Dio per noi. «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?», dice il Signore.
E ancora: «Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
Verso l’essenziale
Aver cura, infatti, significa anche scegliere l’essenziale. Percorrere vie dritte di verità e giustizia. Non affannarsi per accumulare. Certo, impegnandosi a fondo, con serietà, nel proprio lavoro anche per contribuire a migliorare il luogo in cui si vive, la società in cui si opera, l’ambiente. Affidandosi, per chi crede, a Dio e cercando di essere qui, sulla terra, specchio della sua cura per gli uomini e per il creato. Sollevando, per quanto possibile, gli altri dalla infelicità e dal dolore. Ricordando che ciascuno è prezioso e attende le nostre premure. E che, come già cantava Battiato, dovremmo salvare l’altro «da ogni malinconia/Perché sei un essere speciale/Ed io avrò cura di te».
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