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Le storie che raccontiamo hanno un suono speciale - Azione Cattolica Italiana Arcidiocesi di Palermo

Le storie che raccontiamo hanno un suono speciale

Destò un certo interesse quando uno dei principali quotidiani italiani, su iniziativa dell’allora direttore Ferruccio De Bortoli, fece esordire in prima pagina una rubrica fissa dedicata alle Buone Notizie. Era il 2012. Una risposta a quanti criticano la grande stampa di dare rilievo solo a cronaca nera, guerre, disastri e violenze. Subito dopo nacque un blog on line della stessa testata. Infine, dal 2017, un inserto cartaceo a sé stante (un “dorso” come si dice in gergo) gratuito, settimanale, distribuito con il quotidiano e intitolato Buone Notizie.

Non è l’unica esperienza nel panorama della stampa e del giornalismo italiano. È sempre più diffusa la sensibilità e l’attenzione per quella che non è la semplice “cronaca bianca”, quanto piuttosto “l’impresa del bene”, che genera fiducia nel futuro, attenta alle storie, alle energie nuove della comunità, alla creatività del Terzo settore e non solo. Ma sorge una domanda: sono solo queste le “buone notizie” che vorremmo leggere o ascoltare attraverso le testate giornalistiche?

Ostaggio degli algoritmi

La risposta a tale interrogativo, a mio avviso, non può che essere negativa. È vero che la nostra informazione rincorre spesso il sensazionalismo, il clamore, lo scandalo. E cavalca con furbizia l’indignazione e l’emotività. Complice anche la disintermediazione prodotta dai social media. Il “citizen journalism”, l’aver reso tutti cronisti e testimoni sulla strada, da un lato crea nuove potenzialità e permette, in teoria, di ampliare a dismisura la democrazia informativa. Dall’altro però non garantisce più la presenza e l’azione degli strumenti necessari per assicurare un corretto esercizio del diritto a essere informati, al riparo da manipolazioni e fake news. 

Il “postare” in tempo reale immagini e filmati, così come la valanga dei like o delle reazioni negative fa sì che a determinare “l’agenda setting”, cioè a influenzare la scala di priorità delle notizie non siano più le giornaliste e i giornalisti o gli organi di informazione riconosciuti e sottoposti a un controllo. Bensì gli algoritmi o più semplicemente il numero delle visualizzazioni. O peggio, le leggi del marketing. 

Non si tratta di difendere una “casta” di giornalisti e operatori dell’informazione, ma di mettere in guardia dai rischi che questa radicale “disintermediazione” dei media produce sulla democrazia e sulla libertà di informare ed essere informati. 

Come osservava Papa Francesco nel Messaggio per la 51ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 gennaio 2017): «Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di macinare ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire».

Le cattive notizie

Occorre spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura che è frutto del concentrare l’attenzione sulle “cattive notizie”. Questo non vuole dire “censurare” i drammi degli individui e dell’umanità del nostro tempo, ma sforzarsi di cogliere sempre anche dei segni di speranza, senza timore di lasciarci condurre nel dramma della storia dalla Buona Notizia per eccellenza, cioè il Vangelo. Altrimenti si rischia di spettacolarizzare il dramma del dolore e della sofferenza con due possibili esiti, entrambi negativi: anestetizzare le coscienze alle notizie negative oppure scivolare nella disperazione.

La ricerca della verità

C’è anche un altro profilo da tener presente, che attiene al rapporto con la verità. O meglio con l’incessante ricerca e tensione verso la verità che dovrebbe caratterizzare il lavoro di ogni giornalista, pur tra comprensibili e inevitabili errori e cadute. Assistiamo a una progressiva perdita di fiducia nella verità da parte dell’opinione pubblica e sui grandi organi di informazione che ne sono lo specchio e, al tempo stesso la guida. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, questa perdita di fiducia nella verità non produce un maggior senso critico, dettato da un approccio relativistico o dialettico rispetto alla realtà. Bensì, assai più banalmente, la progressiva perdita di fiducia nella verità genera la rinuncia a pensare. La rinuncia a interrogarsi e a cercare risposte, piste di approfondimento, nessi causali tra gli avvenimenti. 

Oggi basta produrre, avere possibilità tecniche per risolvere meglio e più in fretta problemi pratici, anche se non cogliamo più la verità delle cose. Il risultato è che si finisce per avere una visione sempre più irrazionale o ideologica del mondo (come accade per l’emergenza ambientale o come è avvenuto in occasione della pandemia per la questione dei vaccini). Fuggiamo la fatica del pensare e così finisce per venirci a mancare anche la speranza per il futuro. O meglio: le nostre speranze e i nostri desideri si sono rimpiccioliti. Le persone non hanno più tempo per restare da sole con sé stesse, risucchiate nella spirale del consumismo. 

Di conseguenza abbiamo perso l’abitudine a coltivare visioni meditate e lungimiranti. Come affermava il cardinale Carlo Maria Martini nelle sue Conversazioni notturne a Gerusalemme sul rischio della fede con il confratello gesuita Georg Sporschill: «Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Solo allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti».

Analfabeti felici

Siamo diventati “analfabeti felici”, analfabeti della vita, adatti alla routine. Il principio della merce di scambio su cui si fonda il consumismo è arrivato fino al cuore dell’uomo. È un approccio che finisce per rimpicciolire anche la nostra immaginazione. Per questi motivi, un’informazione che mette al centro le buone notizie non è un’informazione che necessariamente comunica notizie buone, ma è un giornalismo che si sforza di rimettere al centro il pensare oltre l’esperienza. Questo vale tanto per la grande informazione laica quanto per la delicata informazione sui fatti della Chiesa e l’informazione religiosa. 

Cultori della verità

Da questo punto di vista è utile raccogliere due lezioni di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, come le mise in evidenza san Paolo VI, che era figlio di un giornalista: anzitutto non lasciarsi mai ingannare dal pregiudizio ma essere imbevuti cultori della verità. In secondo luogo, usare l’amore come criterio fondamentale nel continuo esercizio del discernimento e come regola del modo di raccontare la verità. 

Le storie che raccontiamo hanno un suono speciale

La vita dell’uomo non è solo una sequenza di avvenimenti che vanno riferiti in chiave cronachistica, ma è una “Storia”, piccola o grande che sia, che attende di essere “narrata” secondo una certa prospettiva, spiegata e accolta con empatia. Questo è il compito del giornalista. Oggi ancora più di ieri, proprio per l’immensa quantità di informazioni a disposizione. Il giornalismo delle buone notizie allora è un giornalismo che non ha paura di abitare i luoghi dell’uomo di oggi e della sua vita. Senza perdere la speranza.

La verità, come scriveva, Pier Paolo Pasolini, «ha un suono speciale e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante (come del resto non è neanche stupida né scarsa)». Non dobbiamo stancarci di cercarla con umiltà.

*Vocabolario della fraternità è un dossier pubblicato sull’ultimo numero di Segno nel mondo. Clicca qui per leggerlo in versione integrale
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