Trent’anni fa la strage di Capaci. E due mesi dopo, via D’Amelio. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: lo Stato sotto attacco della mafia. Ne parliamo con Antonella Pappalardo, 59 anni, palermitana, sposata, due figli e una nipotina di otto mesi, Daria. È in magistratura dal 1987. Ha lavorato sempre in area penale. Dopo l’inizio a Torino, è tornata nella sua città nel 1991, occupandosi anche di processi di mafia. Oggi presiede una sezione penale del Tribunale di Palermo.
«Trent’anni dalle stragi di mafia, ed ecco che si torna a parlarne. Sarebbe un crimine trasformare questa ricorrenza in un’occasione per spendere parole vuote, al solo scopo di timbrare un anniversario che invece pesa ancora, e non poco, sulla coscienza dell’Italia intera. Per celebrare questo trentennale non servono allora parole leggere, ma scelte e gesti pesanti». Lo scrive nel suo editoriale su Lavialibera, il bimestrale di Libera e Gruppo Abele, don Luigi Ciotti. Quali sono queste parole pesanti che dovremmo assaporare in questi giorni di memoria?
Credo che queste parole pesanti siano le parole “liberate”, ossia restituite al loro significato originario e libero, appunto, dalla mistificazione che ne ha compiuto l’organizzazione mafiosa, in particolare, quella specifica organizzazione di stampo mafioso che si fa chiamare “cosa nostra”. Mi spiego meglio. Cosa nostra siciliana è un’organizzazione sociale di stampo criminale, di forte natura identitaria, direi tradizionalmente identitaria. È il lessico che ha contribuito storicamente – e non poco – a costruire siffatta identità, a rafforzare il vincolo solidaristico (criminale) tra gli “uomini d’onore”, ma anche a indurre una sorta di anestesia della coscienza personale e sociale, per dirla con le parole di papa Francesco, così da favorire le pervasive condotte socialmente pericolose e penalmente rilevanti, proprie dell’organizzazione, che usa strategicamente e subdolamente la sua forza di intimidazione. La genesi di questo lessico è quasi sempre riconducibile a un’operazione di (ri)appropriazione e di franca mistificazione di termini propri della migliore tradizione popolare, della stessa cultura religiosa. Allora, ritengo che un primo “gesto pesante” sia la liberazione del linguaggio dalla mistificazione che ne ha compiuto storicamente “cosa nostra”, spesso per conquistare una legittimazione sociale, che la rendesse “presentabile” e tollerabile sul territorio, persino appetibile agli occhi di tanti, specie giovani.
Qual è la prima parola da liberare?
La prima parola da liberare è, a mio parere, “amico”, nelle varie declinazioni mafiose di: “amico nostro”, “amico buono”. Un esempio può tornare utile. Nel linguaggio mafioso, “amico buono” è colui che interviene “a chiudere” la partita dell’estorsione, ossia concorre a determinare il quantum del pizzo, mediando tra l’imprenditore estorto e la pretesa criminale dell’organizzazione, con il preciso intento di favorire sempre e solo quest’ultima. Si presenta come “amico” della vittima, ma in realtà è solo l’altra faccia del racket, appunto quella “presentabile”. In questo modo la mistificazione è compiuta. Il termine “amico” è stato snaturato, deprivato di quel significato di relazione libera e liberante, che gli è proprio, “scippato” del senso della gratuità. E si potrebbe continuare. Altro caso lampante. Nel lessico mafioso, il termine “cristiano”, perde ogni sua connotazione religiosa, supera il significato di “uomo”, proprio del dialetto siciliano, e indica solo gli adepti dell’organizzazione mafiosa, caricandosi di una valenza semantica tanto settaria quanto orgogliosamente auto-celebrativa. Penso allora che la prima cosa da fare sia proprio ridare senso alle parole, destrutturarle dalla ideologia mafiosa.
Lei che ricordi ha di quei giorni?
I ricordi più intimi sono e restano nel mio cuore. Qui voglio solo dire dei sentimenti che ho provato in quei giorni, da giovane magistrato, appena ritornata a lavorare nella mia città, Palermo. Il cratere di Capaci mi generò un senso di vuoto indicibile. Da giovane uditore giudiziario, io e i colleghi del mio concorso avevamo conosciuto Giovanni Falcone ad alcuni incontri di formazione. Ci spiegò, in quell’occasione, il suo metodo di lavoro, dalla caccia agli assegni, alle rogatorie internazionali. Spiegava, sottolineava i problemi affrontati, e sorrideva con gli occhi, pacato, ironico, consapevole. La sua naturalezza mi spiazzò e ingenuamente pensai: «Quest’uomo è invulnerabile». Il cratere di Capaci inghiottì la mia ingenuità, ma mi restituì, solo col tempo, il senso di una invulnerabilità diversa da quella che mi ero scioccamente prefigurata.
L’esplosione di via D’Amelio mi gettò nello smarrimento. Nello strazio della veglia al Palazzo di Giustizia si faceva strada nella mia testa, un’idea insopportabile: «Palermo è una città irredimibile», ma il cuore andava al ricordo di un gesto semplice: il passaggio fugace di Paolo Borsellino, una mattina di giugno, alla cassa del bar del Palazzo di Giustizia, per pagare il suo caffè. Lo sguardo era quello consapevole e doloroso di chi conta i propri giorni, andai con la mente allo sguardo di chi sappia di avere un male incurabile. Ma il passo era svelto, quello di chi ha molto da fare. Si, c’era e c’è ancora molto da fare.
In questi trent’anni è accaduto molto nel contrasto alle mafie. Nuove inchieste e nuove leggi, nuovi progetti di antimafia civile e nuove alleanze. Allo stesso tempo abbiamo assistito a leggerezze, inadeguatezze, inadempienze. E nuove vittime innocenti. Come possiamo contrastare oggi il crimine?
Appunto, ricordando la lezione di Falcone: la lotta alla mafia non può tollerare alti e bassi, richiede costanza, esige il suo riconoscimento come una urgenza dell’azione giudiziaria, ma anche come una priorità immanente dell’agenda politica, del dipanarsi delle relazioni economiche, dell’azione pastorale della Chiesa italiana. La forza dell’organizzazione mafiosa, parlo soprattutto di quella con cui mi sono imbattuta nella mia esperienza professionale, ossia di cosa nostra, è nella sua capacità intrusiva in ogni ambiente, in ogni sistema di relazioni. Non c’è acqua ove cosa nostra non si bagni, inquinandola a volte in superficie, a volte in profondità, alla bisogna. Per questo lo sforzo di sradicamento deve essere sinergico e investire ogni ambiente, ogni realtà, ogni settore. Non si può prosciugare l’acqua, ma si può mantenerla limpida. Credo che oggi la sfida si giochi soprattutto sul terreno della prevenzione del doppio pericolo che la mafia riversi enormi capitali illeciti in attività economiche pulite, sfruttandone le crisi di liquidità e che possa incunearsi negli appalti pubblici a valere sulle risorse del PNRR. Sono sfide complesse, si possono vincere, o almeno si può stare in partita, solo a patto di impiegare, nell’attività amministrativa, finanziaria, economica, tecniche di monitoraggio di ogni indicatore di anomale intrusioni e strumenti di profilassi di saldature tra interessi mafiosi e permeabilità corruttive.
In questi trent’anni, soprattutto in Sicilia, la cultura della legalità ha fatto un passo in avanti, soprattutto tra i giovani e nelle scuole…
Assolutamente si, schiere di insegnanti ed educatori hanno in questi anni coltivato in tutta Italia, la memoria di ciò che di terribile è accaduto, senza fermarsi a rievocazioni epidermiche ma seminando occasioni di consapevolezza critica. Si sono inventati forme, strumenti, contenuti didattici mai visti prima, anche in territori difficili. Bravissimi! La Magistratura, lo Stato, l’intera comunità civile devono loro un immenso “Grazie!”.
E ancora: la cultura, l’arte, l’informazione, non pensa siano ancora un veicolo fondamentale per costruire già da subito un amore per la legalità che regga poi in futuro?
Certamente, la coscienza collettiva e il processo di “liberazione delle parole” di cui dicevo prima, richiedono l’ausilio, in primo luogo, di tutte le professioni della cultura, perché si tratta di una operazione lunga, che necessita della competenza specifica di chi lavora con il linguaggio, di chi è capace di rispettarne l’aderenza al fatto, di chi usa ogni forma di comunicazione, come strumento di condivisione della bellezza che profuma sempre di libertà.
Come si combatte oggi la mafia?
Con l’azione sinergica di cui dicevo prima. Oltre all’attività repressiva e alle iniziative giudiziarie, togliamo spazio alla mafia, limitiamone la capacità diffusiva in ogni ambiente, strappiamole l’uso perverso di simbologie religiose. Un’azione pastorale, mirata, urgente e forte in questo senso, può essere davvero una leva efficace per smascherare la mistificazione mafiosa, mettere a nudo il fenomeno criminale, privandolo di quella sorta di legittimazione sociale che “cosa nostra” ha sempre perseguito e che è stato un suo punto di forza.
Sconfiggeremo, un giorno, le mafie?
Preferisco parlare non di mafie in generale, ma della mafia con cui mi sono imbattuta nel mio percorso professionale. Ritorno al pensiero di Giovanni Falcone, che leggeva “cosa nostra” come un fatto storico, umano, come tale destinato ad avere un inizio e una fine. Quindi dico: «sì, certo, se guardiamo al fenomeno criminale che proprio Giovanni Falcone ci ha insegnato a conoscere e lottare». Esso finirà, ma solo a patto di esaurirne le fonti di alimentazione, che ne foraggiano anche il ricambio generazionale; in primo luogo i suoi profitti criminali e quella narcosi delle coscienze, se non anche consenso, che nasce dall’abile capacità mistificatoria e di mimetizzazione di cui abbiamo parlato sopra.
E mi piace pensare al possibile segno della sconfitta; è mia nipote Daria che un giorno mi chiede: «nonna, sul libro di storia c’è un pezzo: “fine di cosa nostra”. Ma che roba è? mi fai mica un suntino veloce?”».
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