L’ultima tornata amministrativa del 12-26 giugno, con l’aggiunta di cinque quesiti referendari sulla giustizia che si sono fermati a una distanza siderale dal quorum minimo di partecipazione del 50%, ha di fatto aperto la campagna elettorale verso le Elezioni politiche nazionali del 2023. Ed è stato il test sul quale poi il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha operato la scissione più clamorosa della legislatura, formando gruppi autonomi alla Camera e al Senato e sfarinando definitivamente il Movimento cinque stelle delle origini.
Dal punto di vista “quantitativo”, il centrodestra, se e quando unito, continua a mantenere un vantaggio nei consensi generali, pur mostrando costantemente crepe e contraddizioni. Crepe che hanno co-determinato la sconfitta ai ballottaggi in città importanti come Verona, Piacenza, Catanzaro, Monza. In particolare, assume un valore simbolico alto la vittoria dell’ex calciatore Damiano Tommasi nella città scaligera, a danno del sindaco uscente Sboarina, di Fratelli d’Italia, che ha rifiutato l’apparentamento al secondo turno con l’altro pezzo di centrodestra rappresentato da Flavio Tosi. Il centrosinistra incassa quindi un discreto recupero nelle città e sui territori ma, nel quadro generale nazionale, pare al momento bloccato dai veti. Già il formato Pd-M5s pareva aver bisogno, per lottare punto a punto con l’altro campo, di “riagganciare” le formazioni centriste e riformiste. Ora che dal Movimento è uscita la componente “moderata” di Di Maio, per il Partito democratico il lavoro diventa ancora più complesso: si tratta di mettere insieme le formazioni di sinistra e il Movimento contiano che si caratterizzano su posizioni più radicali – anche in politica estera – con raggruppamenti centristi, “moderati” e riformisti che hanno tutt’altra agenda e guardano soprattutto al proseguimento dell’esperienza Draghi. Guardando ai singoli partiti, Fratelli d’Italia da una parte, e il Pd dall’altra, si stanno conquistando sul terreno i galloni di capofila delle rispettive coalizioni. Mentre non solo M5s, ma anche l’altro partito che aveva dominato le elezioni del 2018, la Lega, prosegue nella propria fase di appannamento. Le cadute progressive di M5s e Lega sembravano poter incidere anche sulla tenuta del governo Draghi, ma in qualche modo l’operazione-Di Maio pare averlo stabilizzato.
In generale, nessuna delle due coalizioni mostra di essere davvero in salute. Il centrodestra è lacerato da un lato dalla rivalità tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, dall’altro vive un equilibrio sempre molto instabile e precario tra europeismo ed euroscetticismo, come dimostra la perenne tentazione “centrifuga” delle componenti moderate di Forza Italia, attirate dalle teoriche potenzialità di un raggruppamento di centro – il cosiddetto “terzo polo” su cui al momento giocano e litigano soprattutto Carlo Calenda e Matteo Renzi, ai quali si è aggiunto ora Luigi Di Maio -. Allo stesso tempo, la scelta avvenuta a Lucca di apparentarsi, al secondo turno, con formazioni dell’estrema destra, è servita sì a conquistare una città “rossa” ma suona come un campanello d’allarme generale: a cosa si è disposti pur di “vincere” le elezioni? Sul centrosinistra pesano soprattutto le difficoltà del Movimento cinque stelle, che non trae benefici elettorali dalla cura di Giuseppe Conte, la cui leadership è ora appannata dalla fragorosa scissione interna e dal nodo irrisolto di come porsi rispetto all’esecutivo-Draghi. C’è la possibilità che, nel 2023, ci siano addirittura 3 o 4 “spin off” del “vecchio” Movimento.
L’attuale legge elettorale obbliga però a stare insieme. Al momento, i tentativi di passare dal Rosatellum al proporzionale si sono fermati nelle commissioni parlamentari. Il centrodestra, che si vede in vantaggio, non vuole rinunciare al “diritto” di dare le prime carte dopo il voto. Tuttavia, la strada verso le elezioni è ancora lunga e nessuno può assicurare che nel 2023 il quadro dei partiti e delle alleanze sarà identico a quello che si è presentato nei Comuni. Tra l’altro, a ottobre si vota per la Regione Sicilia, da sempre laboratorio di prassi e processi che poi si replicano a livello nazionale. In ogni caso, il proporzionale potrebbe tornare di attualità solo nel momento in cui almeno un pezzo del centrodestra offrisse una sponda al centrosinistra. C’è da considerare, infine, che anche con il Rosatellum resterebbe plausibile uno scenario post-elettorale incerto e confuso, con vincitori senza scettro e vinti con la “golden share”, scenario che potrebbe portare a nuovi rimescolamenti tra i partiti e nuove maggioranze da “fantacalcio”, in continuità con i costanti colpi di scena della legislatura che si sta concludendo.
Certamente la forte incertezza politica grava sulla situazione del Paese. Tra pandemia-endemia strisciante, conflitto, perturbazioni sul debito pubblico e sui mercati, inflazione e ritorno di politiche europee “sobrie”, l’Italia potrebbe pagare a caro prezzo, in autunno e nei prossimi mesi, un clima da campagna elettorale infuocato in cui si metterebbe in discussione l’intera “agenda-Draghi”, dalla politica estera alle riforme necessarie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
È un rischio evidente. Che si accompagna a una certezza. La già percepita confusione del quadro politico sta incidendo in modo forte sulla partecipazione, alimentando un astensionismo che il nostro Paese non aveva sinora conosciuto. Addirittura, ai ballottaggi l’astensionismo ha raggiunto il 58%. Si fa largo una frase detta a mezza voce, “votare non serve”, che dovrebbe far tremare i polsi a chi ha a cuore la democrazia. La disillusione verso i partiti definiti “populisti” e “sovranisti”, la stanchezza perdurante dei “partiti tradizionali”, la sensazione che anche i “nuovi” seguiranno la parabola di chi è venuto prima… tutto ciò contribuisce a un clima di profonda disaffezione. Insieme, va detto, ad una stagione di “larghe intese” e “tecnica” che sta sì raggiungendo gli obiettivi concordati con l’Unione Europea, ma non è riuscita a trasferire una visione più ampia in cui identificarsi.
Il segnale delle Comunali pare essere stato sottovalutato. E la scissione dentro M5s pare confermare, a prescindere dalle valutazioni di merito, che la politica vive su un mondo tutto suo staccato dalla realtà. Se i cittadini non vanno a votare il proprio sindaco, la malattia è grave. Le risposte devono essere sostanziali e non formali. Va trovata la strada perché i cittadini tornino a sentirsi protagonisti nelle vicende del Paese e non pedine nelle mani di ristrette oligarchie: un protagonismo che deve esaltarsi nel segreto delle urne, certo, ma che nasce prima, sul posto di lavoro, in un’aula scolastica o universitaria, nelle nostre associazioni. La responsabilità è dei partiti, ma non solo.
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