Sono già iniziate le manifestazioni del 394° Festino di Santa Rosalia, la vergine palermitana vissuta nel XII sec. che, sotto la spinta del volere popolare, viene proclamata Patrona della città dal Senato il 7 luglio 1624.
Figlia del Duca Sinibaldo, signore della Quisquina, località a circa 90 km da Palermo sui Monti Sicani, e di Maria Guiscarda, cugina del re normanno Ruggero II. Giovanissima fu chiamata presso la corte normanna della regina Margherita, moglie di Guglielmo I di Sicilia (1154-1166). Rosalia visse in quel felice periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia, dopo aver scacciato gli Arabi che se n’erano impadroniti dall’827 al 1072; favorendo il diffondersi di monasteri Basiliani nella Sicilia Orientale e Benedettini in quella Occidentale.
Nonostante la sua bellezza attirava l’ammirazione di molti cavalieri, in quest’atmosfera di rinnovamento religioso, la giovane nobile Rosalia preferì la vocazione eremitica. Seguendo l’esempio degli anacoreti, si ritirò in una grotta del feudo paterno all’interno della quale, dopo tempo, ripulendo la roccia dal muschio fu trovata la famosa iscrizione: “Ego Rosalia Sinibaldi Quisquinae et Rosarum Domini filia amore D/ni mei Jesu Cristi in hoc antro habitari decrevi”. (Io Rosalia figlia di Sinibaldo Signore della Quisquina e delle Rose per amore del mio Signore Gesù Cristo decisi di abitare in questo antro). Un dodici in numerazione araba, inciso in basso, dovrebbe indicare il tempo di permanenza della santa in questo luogo.
Abbandonata la grotta della Quisquina, torna a Palermo per rifugiarsi sul Montepellegrino, promontorio che sovrasta il limite nord-ovest del golfo della città. Visse così la sua vita fino al dies natalis tradizionalmente posto il 4 settembre 1170.
Dopo la sua morte si diffuse una grande devozione per questa donna e da subito si iniziarono le ricerche dei suoi resti anche da parte di san Benedetto il Moro intorno alla metà del ‘500, ma non furono trovati.
Il 26 maggio 1624 Girolama La Gattuta ridotta in fin di vita, vide in sogno una fanciulla vestita di bianco, che le prometteva la guarigione se avesse fatto voto di salire sul Montepellegrino. La donna salì sul monte e appena bevve l’acqua che gocciola dalla grotta, si sentì guarita, cadendo in un riposante torpore. Le riapparve quindi la stessa giovane vestita di bianco che le indicò il posto dove erano sepolti i suoi resti mortali.
Comprendendo che si trattava della giovane eremita, ripresero le ricerche finché il 15 luglio 1624, a quattro metri di profondità, trovarono un masso a cui aderivano delle ossa. Per ordine del cardinale arcivescovo di Palermo, Giannettino Doria, il masso fu trasferito nella sua cappella privata.
L’iniziale difficoltà di riconoscere l’autenticità delle reliquie da parte della prima Commissione teologica e medica fu superata da una seconda Commissione avallata dalla testimonianza di un certo Vincenzo Bonelli che essendogli morta la moglie di peste e non avendolo denunziato, fuggì sul Montepellegrino e qui gli apparve la Santuzza predicendogli la sua morte per peste e ingiungendogli, se voleva la sua protezione per l’anima, di dire al cardinale che non dubitasse più dell’autenticità delle reliquie e le portasse in processione per la città per porre fine al flagello della peste. Tornato in città, effettivamente si ammalò di peste e prima di morire confessò ciò che gli era stato rivelato. Il 9 giugno del 1625, l’urna costruita apposta per contenere le reliquie, fu portata in processione; la peste cominciò a regredire e il 15 luglio quando si fece il pellegrinaggio sul Montepellegrino, nell’anniversario del ritrovamento delle reliquie, non comparve più nessun caso di appestato.
Ogni anno, la sera che precede la festa liturgica del 4 settembre, molti palermitani, compiono la famosa acchianata (salita) a piedi al santuario attraverso un antico sentiero in pietra. La posizione del santuario sulla montagna risulta interessante in quanto richiama il percorso in salita, segno di ascesi, immediatamente legato ad un atto di purificazione.
Venendo a Palermo per il modulo formativo, cosa troveranno gli adulti di Azione Cattolica?
Un singolare intreccio di tradizioni, di costumi, di valori umani e profonda fede religiosa che sta nel cuore della religiosità popolare e che ha modo di esprimersi in modo peculiare in questa occasione. Il Cardinale Pappalardo, di venerata memoria, nel suo discorso alla città nel 1986, ha espresso con pieno compiacimento questi valori essenziali: “l’unità della famiglia, l’esaltazione di tutto ciò che è veramente bello, della gentilezza, dell’amicizia e della cordialità sincera: doti queste delle quali il nostro popolo può andarne ben fiero!” -, ma anche ciò che riguarda le manifestazioni più esteriori e folkloristiche – “le sfilate (…) di carri siciliani, del Carro Trionfale di Santa Rosalia, l’uso di tanti dolci comprese le tradizionali lumache”. “Ma badiamo” – aggiunge subito – “che il festino (…) non può essere solo questo insieme di punti di un programma di attrazioni, quasi uno dei tanti festivals che si celebrano per i più diversi motivi. È una festa religiosa che deve servire soprattutto a rinnovare e rinsaldare in tutte le categorie di cittadini i contenuti e i valori della fede cattolica, secondo la dottrina del Vangelo che la Chiesa, Madre e Maestra, ci insegna”.
In questa luce va vista la devozione per santa Rosalia e, in genere, il culto dei santi, che non è fine a se stesso, ma intende elevare la nostra mente e il nostro cuore a Dio, nel quale i santi hanno creduto e sperato e che hanno immensamente amato. Proiettati a un’educazione alla fede che mantenga nette le gerarchie di valore, senza alcuna concessione a certe derive devozionistiche a cui talvolta la religiosità popolare è portata a cedere, sostituendo i santi a Dio stesso.
Non affogare, ma partire dal clima della festa di popolo per attivare un processo di consapevolezza più profonda del significato e delle implicazioni, sul piano della vita concreta, della fede cristiana. Rosalia, come tutti i santi, diventano, in questa luce, il modello di un cristianesimo che sa rompere con la mentalità, i costumi e le strutture di peccato: “Il ricorso a S. Rosalia perché liberi la città da tanti mali come la liberò una volta dalla peste e da altri guai non può rimanere isolato da quello sforzo volenteroso che ciascuno e tutti dobbiamo onestamente e coraggiosamente fare perché le cose cambino e migliorino” (Card. S. Pappalardo, Discorso alla città, 1980).
Da questo punto di vista, il “festino” è molto di più che un evento festoso fine a se stesso, è un’occasione importante in cui Palermo può ritrovare il proprio volto e la propria identità spirituale. Il popolo palermitano ha bisogno anche della festa di S. Rosalia per disporre i vari aspetti che compongono la vita umana secondo un ordine, una scala di precedenze.
In santa Rosalia e nel festino i palermitani trovano una ragione e una occasione di identità collettiva ben sintetizzata nel grido: “Viva Palermo e santa Rosalia”.
Don Luciano Fricano
Assistente Diocesano Adulti
Ac Palermo