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Il quinto cavaliere - Azione Cattolica Italiana Arcidiocesi di Palermo

Il quinto cavaliere

Per cosa sarà ricordato questo inizio millennio è difficile dirlo. Guerra, morte e pestilenza sono sotto i nostri occhi, e con la carestia (che potremo tradurre come conseguenza di un ambiente tradito e violato dall’uomo) si completa il ritratto biblico apocalittico. Si dirà: a ben vedere, è questa la Storia umana attraverso i secoli. Dov’è la novità? La novità, il quinto cavaliere, è che alle “macro tragedie” che accompagnano il nostro vivere in una casa comune sempre più rancorosa e conflittuale, abbiamo aggiunto le “micro tragedie” (si fa per dire) di un’epoca “asociale” o “social”, in cui le verità di una relazione si misurano in like, le “storie” di ciascuno sono ridotte a scatti fotografici, dove tutto è fintamente democratico e tutti parlano di tutto senza assumersi la responsabilità di niente. La confortante leggerezza del “non essere”.

Un’epoca “maleducata” sino al sopruso e all’abuso

È un tempo in cui un qualsiasi sprovveduto (per non dire peggio) si sente da Vinci (e questo passi), il vuoto di senso è confuso con l’assenso, e dove il nulla di Parmenide è spacciato gratuitamente come alimento per la mente. È un tempo in cui l’“ostentazione” di corpi e anime è chiamata libertà, dimenticando la “partecipazione” cantata da Gaber; in cui l’amor proprio, il semplice rispetto per sé stessi e figuriamoci quello per gli altri non hanno dimora. Un’epoca “maleducata” sino al sopruso e all’abuso, come la cronaca ci racconta quotidianamente, dove una ragazza è una preda e una moglie, una compagna, una proprietà del maschio padrone che può disporne sino alla morte. Un’epoca in cui si uccide per un parcheggio o ci si diverte prendendo a calci una capretta.

In gioco c’è l’essere “comunità”

Sono state scosse le stesse fondamenta dell’essere “comunità”: questo il punto. Il pilastro educativo scricchiola pericolosamente. Certo saranno molte le ragioni e molte di più le analisi e le spiegazioni possibili. Non faremo i tuttologi, e per fortuna ciò che scriviamo vale per tanti e non per tutti, ma un’impressione prevale: all’origine di ciò che chiamiamo “crisi educativa” sembra ci sia soprattutto una crisi di fiducia nella vita; una carenza di speranza e di volontà di futuro, una incapacità di formare gli esseri umani al loro nascere, crescere e invecchiare.Tutto ciò denota un tratto tipico della nostra società, in cui domina il relativismo. La situazione si riflette in particolare a livello giovanile, dove la mancanza di senso rende problematica la maturazione di un progetto di vita e crea un sentimento di grave disagio esistenziale. In questo contesto, la domanda sociale – più semplicemente ciò che vediamo intorno a noi – sembra privilegiare una visione strumentale e di breve termine dell’educazione, quando invece l’educazione è per sua natura un investimento di lunga (e difficilmente prevedibile) durata.

Saper dire dei “sì” ma anche dei “no”

Oggi a una evidente “immaturità genitoriale” di ritorno che sembra montare, intesa come vera è propria incapacità di essere padri e madri, di saper dire dei “sì” ma anche dei “no”, si associa il depotenziamento delle istituzioni scolastiche e la delegittimazione degli insegnanti. Risultato: un disagio adolescenziale che si esprime in una gamma di comportamenti che vanno dalla frustrazione per i bisogni disattesi fino alla devianza più grave.In particolare, sono tanti i giovanissimi che tendono a mettere insieme un modo di fare non conflittuale e opportunista all’interno della famiglia e una condotta più decisamente a rischio, fino a diventare anche violentemente trasgressiva, all’esterno. Analogamente le loro attese nei confronti del percorso scolastico e formativo e delle prospettive future di vita si presentano condizionate da opinioni convenzionali: per quanto riguarda la scuola, la persuasione corrente è oggi che si tratti di adattarsi a un dovere da rispettare, mentre ciò che conta per la vita sia da ricercare altrove. A ciò si può aggiungere l’allungamento continuo del periodo adolescenziale, dovuto sia ai tempi per il conseguimento di un titolo di studio, sia al processo faticoso e complesso attraverso cui si deve passare per conquistare l’autonomia economica e affettiva. Questioni che non possono più essere eluse e che chiedono un di più di “risposta pubblica” ma anche di “responsabilità privata”.

Educare è introdurre nella realtà

Essere un genitore, come essere un insegnante, un educatore, comporta una rinnovata consapevolezza di ciò che questi ruoli hanno significato fin dall’alba dei tempi. Innanzitutto, un’assunzione di responsabilità. A casa, a scuola, in parrocchia o in piazzetta, educare è introdurre nella realtà; ma la realtà è percepibile se ha una sua unità e solidità; se i ruoli nella commedia della vita sono certi e non interscambiabili, limpidi e non sfumati.Poter percepire la realtà nella sua unità permette di riconoscere che la vita è una cosa buona, che vale la pena stare al mondo, che c’è un posto per ciascuno di noi, che c’è sempre per tutti qualcosa da ricevere e da donare.
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